Leggere per scrivere… bene

Come ho già raccontato in un articolo di qualche tempo fa (“La scrittura è un muscolo“), da piccolo non amavo scrivere e mi riusciva anche molto difficile.

All’epoca mia madre continuava a ripetermi: «Per scrivere bene bisogna leggere tanto» e io leggevo come un ossesso…

In realtà non per poi poter scrivere meglio ma perché mi appassionavano le storie, i personaggi e i “film mentali” che giravo e proiettavo nella mia testa grazie a quelle parole scritte da qualcuno.

Oggi scrivo per lavoro, e per passione, e sto progettando un corso sulla scrittura (creativa e non) che possa aiutare tutti a migliorare le proprie capacità di comunicazione scritta.

Per farlo sto preparando una serie di materiali e sto, ovviamente, studiando a mia volta e, ancora, mi ritrovo a seguire il suggerimento di mia madre «Per scrivere bene bisogna leggere tanto».

Così ho iniziato a collezionare libri sulla scrittura, di ogni tipo: dai manuali tipo “Scrittura for dummies” a una raccolta di saggi sulla scrittura di racconti di Raymond Carver, passando per altre decine di titoli.

In tutti questi volumi riecheggia lo stesso mantra: “leggere per scrivere” e dentro di me scatta un mix di orgoglio e fastidio per la “saggezza popolare” di mia madre.

Prima di andare avanti o passare ad altro…

Se pensi che questo articolo non ti riguardi… beh, probabilmente sbagli!

Il fatto che tu non abbia mai pensato di scrivere un racconto, una poesia, un romanzo o altro non significa che lo scrivere bene non sia un’esigenza fondamentale per te.

Pensa alla quantità di mail che scrivi ogni giorno, ai post sui social, ai messaggi di WhatsApp che mandi ad amici, colleghi e parenti.

Tutte queste sono occasioni in cui “fare la differenza”, opportunità di distinguerti dalla massa di persone dalla scrittura mediocre o, spesso, orrenda, momenti in cui puoi rappresentare correttamente la tua personalità e professionalità.

Detto questo, puoi continuare a leggere o, liberamente, passare a un altro articolo…

Perché?

Ma perché si dovrebbe leggere per scrivere?

I pareri sono diversi ma il risultato è sempre il medesimo.

Per alcuni è importante leggere per farsi un’idea di cosa ci piaccia e cosa no e la risposta a questo è fondamentale per poter scrivere cose che ci piacciano e quindi “scrivere con sincerità” (un altro tema della scrittura che dovremo approfondire).

Quando parlo di piacere non intendo solo il genere, parlo anche dello stile, del ritmo, della forma e anche delle singole parole.

Per altri leggere è fondamentale per capire cosa non ci piace e per allenare il nostro spirito critico, così da individuare immediatamente le castronerie che inevitabilmente scriveremo in futuro.

A questo proposito c’è chi, per esempio Stephen King, consiglia di leggere anche, non solo, letteratura “bassa”, palesemente mal scritta proprio per allenarci a “caccia l’errore”.

Altri autori ancora consigliano di leggere tanto per aumentare il proprio bagaglio di vocaboli, formule, figure retoriche, stili e ritmi, creando una sorta di cassetta degli attrezzi da utilizzare quando si passa dall’altro lato della tastiera.

Come la penso io

Questo paragrafo raccoglie opinioni e pensieri dell’autore, quindi puoi anche saltarlo a pié pari…

Io credo che tutte le motivazioni qua sopra siano giuste e valide e che da sole basterebbero a convincere chiunque a leggere tanto se volesse saper scrivere bene.

Ma c’è dell’altro, chi è appassionato di cucina tendenzialmente ama il cibo e mangiare bene.

Mio figlio è un barman e assaggia ogni cosa gli capiti davanti.

Non credo che si possa pretendere di trasportare il lettore nel nostro mondo, di rapirlo dalla sua realtà e farlo atterrare in quella che abbiamo partorito sul nostro foglio, senza aver provato lo stupore e la meraviglia che questo viaggio genera.

E non solo.

Ritengo sia improbabile poter anche solo immaginare un racconto, un libro, un’aforisma, una mail, un claim, una poesia… efficace senza aver prima nutrito il nostro cervello con un numero imprecisato (tendente a infinito) di racconti, libri, aforismi, mail, claim, poesie…

Sì, ma cosa leggere?

Semplicemente tutto.

Leggi il giornale, i libri, gli opuscoli, le pubblicità.

Siamo subissati di messaggi scritti, ma soprattutto leggi libri…

Del genere che preferisci, ma anche di altri generi non sarebbe male. Leggili su carta, in formato digitale, alla peggio anche in formato audiolibro, anche se io credo funzioni meno bene dal punto di vista “didattico”.

In ogni caso leggi, leggi appena puoi: in fila alle poste, sulla metro, in bagno (tantissimi lo fanno), prima di dormire, mentre aspetti che cuocia la pasta.

Ogni occasione è buona e ogni frase può essere quella che illuminerà il tuo nuovo modo di scrivere, perché è esattamente come vorresti averla scritta tu o proprio perché è l’esatto contrario di quello hai imparato essere la buona scrittura.

Controindicazioni

Io sono sempre stato “monomaniaco”.

Mi spiego meglio.

A 15 anni circa scoprii casualmente Dino Buzzati, per la precisione il libro “La boutique del mistero“.

Lo divorai!!!

A quel punto lessi tutto di Buzzati e, inevitabilmente, i miei temi iniziarono ad assomigliare (per quanto possibile, cioè: poco) a dei racconti brevi dell’autore che stavo tanto amando in quel momento.
Questo processo è assolutamente inconscio, naturale e, addirittura, banale.

Con il passare del tempo, con l’alternarsi delle letture e con tanto esercizio nella scrittura le varie influenze verranno assimilate e andranno, tutte assieme, a formare il proprio stile personale.

Questa cosa avviene in tutte le forme di espressione, anche nella musica è dato per ovvio che se ascolto solo i Pink Floyd per sei mesi e poi mi metto a scrivere un brano… suonerà, o cercherà di suonare, un po’ pinkloydiano.

Quindi “leggere per scrivere” è giusto?

Quindi sono obbligato, per quanto questo possa infastidirmi, ad ammettere che mia madre aveva ragione: leggere per scrivere è un approccio sano, corretto ed efficace.

Nella scrittura, chiunque abbia provato anche solo a scrivere un post di Facebook un po’ più lungo del “Buongiorno a tutti” lo sa, non esistono scorciatoie.

Le parole, per quanto si digiti veloce sulla tastiera, escono una per volta e, di conseguenza, le frasi…

Ci vuole tempo per scrivere e ancora più tempo per imparare a farlo e una vita intera per farlo sempre meglio.

Gualtiero Tronconi

Ok, il prezzo è giusto

Una delle domande che chiunque stia lanciando sul mercato un nuovo prodotto o servizio si fa, o dovrebbe farsi, è: «Qual è il prezzo giusto?».

Anche a noi di Accademia succede di chiederci che cifra chiedere per un determinato corso o per gli interventi di coaching, che siano life o business.

Come determinare il prezzo giusto

Secondo il libro “Principi di marketing”  di Philip Kotler, Gary Armstrong, Fabio Ancarani e Michele Costabile esistono tre principali strategie di definizione del prezzo:

  • Pricing basato sul valore percepito dal consumatore
  • Pricing basato sui costi di produzione/erogazione
  • Pricing basato sulla concorrenza

Quindi se decido di mettere sul mercato un nuovo tipo di vite potrò:

  • Valutare quale sia valore percepito della mia vite da parte dal consumatore e ipotizzare un prezzo in linea con questo valore
  • Fare una stima dei costi di produzione (approvvigionamento della materia prima, produzione del pezzo, marketing, amministrazione, ecc) per capire quanto mi costa una vite, decidere che margine di guadagno voglio avere su ogni vite e quindi sommare uno all’altro e stabilire così il prezzo.
  • Analizzare il prezzo della concorrenza e decidere come voglio posizionarmi rispetto a essa.

Ma c’è dell’altro

Tutto quanto detto fin qui è vero ma ci sono altri fattori da tenere in conto per la definizione del prezzo giusto della nostra vite.

Per esempio può esserci uno specifico obiettivo di posizionamento sul mercato.

Qua si identificano diverse strategie:

  • Competition pricing: trovo il pricing più basso tra i miei competitors e mi posiziono ancora più basso. Questo mi renderà molto aggressivo si potenziali clienti attenti al prezzo ma darà anche una percezione del mio prodotto come di bassa qualità.
  • Prezzo di penetrazione: anche in questo caso il posizionamento è basso con l’esplicita intenzione di penetrare velocemente il mercato per poi alzare gradatamente il prezzo una volta che il prodotto è ormai conosciuto e apprezzato.
  • Skimming price: utilizzata soprattutto da “monopolisti”. Entro nel mercato con un prezzo alto per poi abbassarlo con l’arrivare dei concorrenti.
  • Product Line pricing: differenzio i miei prodotti in varie fasce qualitative e di pricing andando così a coprire sia chi cerca il prodotto high end che chi cerca l’entry level.
  • Premium price: un posizionamento alto, teso a consolidare una percezione qualitativa alta del prodotto e a fidelizzare la clientela con il concetto di elitario.

Quindi…

Come sempre, prima di muovere un passo analizza bene dove sei e dove vorresti arrivare.

Studia il mercato, studia i tuoi potenziali clienti e si sempre “sul pezzo” nella gestione dei tuoi processi e dei loro costi.

Tutto questo ti fornirà gli strumenti per prendere le decisioni giuste e stabilire il prezzo giusto per ciò che stai offrendo al mercato.

Gualtiero Tronconi

Cosa è il marketing

Sempre più spesso, parlando con amici piccoli imprenditori o professionisti, mi capita di imbattermi in una serie di grandi misunderstanding in risposta alla domanda: cosa è il marketing?

L’errore in cui più spesso si cade è quello di sovrapporre il “commerciale” al marketing e quindi mi ritrovo a sentire professionisti sanitari che affermano: «Io non voglio fare quelle cose lì, non mi interessa vendere…»

Al di là delle riflessioni sul concetto di “vendere”, di cui ho già scritto qualche tempo fa in questo articolo: “Offrire la cura migliore“, vorrei affermare una volta per tutte che marketing e vendita sono due attività diverse e distinte.

Back to the basics

Ecco cos’è il marketing secondo l’enciclopedia Treccani:

[…] il complesso dei metodi atti a collocare con il massimo profitto i prodotti in un dato mercato attraverso la scelta e la pianificazione delle politiche più opportune di prodotto, di prezzo, di distribuzione, di comunicazione, dopo aver individuato, attraverso analisi di mercato, i bisogni dei consumatori attuali e potenziali.

Quindi, giusto per chiudere l’argomento della premessa, potremmo desumere che la vendita sia una delle tante attività di marketing.

In questo bog abbiamo già affrontato tanti dei temi di questa disciplina:

• il tone of voice: “Il tono definisce l’azienda
• il visual e web marketing: “Immagina le immagini“, “Un colore vale l’altro
• la comunicazione: “Scrivere per il web… efficacemente
• il social marketing: “Ogni social ha il suo pubblico

E abbiamo anche approfondito alcune di queste tematiche a uso degli amici odontoiatri.

I discorsi che sento però mi mettono nella situazione di dover affrontare l’argomento da un punto di vista più generale.

Il contrario di: marketing

Come per il verbo comunicare, anche per la parola marketing non esiste un contrario.

Se andassi a una cena, con gli occhiali da sole, sedendomi in un angolo e non parlando con nessuno, che non sia il cameriere, per tutto il tempo starei comunque comunicando qualcosa ai miei commensali.

Magari che sono al termine di una pessima giornata, molto probabilmente verrei interpretato come uno che vuole essere da un’altra parte.

La medesima cosa avviene con il marketing.

Mi fanno sorridere quegli imprenditori che rifiutano di avere un sito, se ne infischiano dei social, utilizzano un logo degli anni ’50 e non aggiornano le loro brochure dagli anni ’80 al grido di: «Tanto chi vuole quel che faccio mi chiama comunque!!!».

Si! Certo! Finché sei un monopolista, finché un’azienda moderna e aggressiva non decide di invadere il tuo mercato o finché non esista un valido succedaneo.

E poi…

E poi ti rendi conto di quanto la frase: «Se non ti trovo su Google non esisti».

Le mie brochure, il mio sito, il mio logo, il mio listino prezzi, la mia segretaria, i miei commerciali, il mio packaging, i colori e lo stato dei miei furgoni, il mio biglietto da visita, le mie fatture, tutto, ma proprio tutto, ciò che esce dalla mia azienda o che semplicemente viene in contatto con i miei clienti, attuali o potenziali, racconta qualcosa dell’azienda stessa.

Nel caso dell’imprenditore “miope” ipotizzato prima, tutto di lui racconta il suo totale disinteresse nel rapporto con i potenziali clienti e il suo essere fuori dal tempo, il che potrebbe far pensare al fatto che non sia anche produttivamente così attento e all’avanguardia.

E poi… semplicemente, chiudi e fai finta di non capire perché.

Soluzioni(?)

Non esiste una soluzione semplice, non c’è una ricetta segreta.

L’unico trucco che si può mettere in campo è: sapere che il marketing esiste e che tutto è marketing.

Quindi può decidere di occupartene solo in parte, puoi decidere di investire poco o tanto, di farti aiutare o meno da altri professionisti…

L’unica cosa che non puoi decidere di fare e non occupartene perché, staresti comunque facendo marketing, facendolo male.

Gualtiero Tronconi

Le parole per unire (e dividere)

Durante uno dei pranzi con i partecipanti dell’ultimo Practitioner è venuto fuori un argomento interessante che mi ha dato da riflettere sull’uso che si può fare delle parole per unire… e per dividere.

Ripetiamo da ormai anni che le parole hanno un potere magico, citando Freud, cioè la capacità di creare rappresentazioni nella mente di chi le pronuncia e di chi le ascolta.

Quindi, se è vero che un oggetto, una sensazione o un concetto senza nome restano entità poco chiare nella nostra mente, è anche vero che dare un nome a qualcosa significa metterlo sotto un riflettore e “separarlo” dal resto.

Un esempio della prima realtà è riscontrabile nel concetto di intelligenza emotiva, tutte le ricerche dimostrano che dare un nome alle proprie emozioni permette un miglioramento nella gestione di quelle negative (per esempio Putting feelings into words: affect labeling disrupts amygdala activity in response to affective stimuli di Matthew D Lieberman 1, Naomi I Eisenberger, Molly J Crockett, Sabrina M Tom, Jennifer H Pfeifer, Baldwin M Way – 2007).

Chiama le cose con il loro nome

Secondo alcune religioni e credenze ancestrali, tutte le creature hanno un nome “pubblico”, conosciuto a tutti, e un “Vero Nome” o “Nome Segreto”. Conoscere il Nome Segreto di una creatura darebbe la possibilità di controllarla.

Questo per dire che conoscere, o addirittura, dare un nome a qualcosa vuol dire esercitare un potere su di essa, e non solo.

Se ti dicessi che nel primo cassetto a destra della mia cucina si trovano le posate otterrei un effetto diverso rispetto a dire che forchette, coltelli e cucchiai si trovano nel primo cassetto a destra.

Dare un nome specifico a ciascuna posata, crea distinzioni, quindi divide e separa.

Un altro esempio può essere quello dei colori, chi si occupa di grafica ha un “vocabolario” di colori molto più ampio delle altre persone.

Quindi per un grafico non esiste solo il “blu” ma, per esempio, il ceruleo, carta da zucchero, savoia, indaco, elettrico, cadetto, acciaio, polvere, acqua, notte e via così…

Per lui esistono differenze che le persone non hanno, per lui un blu non vale l’altro, alcuni sono più di suo gusto e altri meno.

Implicazioni sociali

Quando, a livello sociale, iniziamo a dare nomi a correnti politiche, preferenze personali o altro otteniamo quindi due effetti.

Il primo è quello di puntare un virtuale occhio di bue su quella realtà, lo portiamo alla luce, lo sveliamo al mondo.

Il secondo è quello di distinguerlo e, di conseguenza, di separarlo dal resto.

Creiamo delle differenze tra quello e il resto.

Credo sia implicita la pericolosità di tutto ciò, è un attimo creare un “noi VS loro” nel momento in cui possiamo dare un nome a “loro”.

Penso quindi che si debba sempre valutare con attenzione la possibilità di darsi un nome o di “reclamarne” uno, perché se è vero che questo può darci un riconoscimento, il rovescio della medaglia è che rischia di far dimenticare che in fondo, siamo tutti “posate”, che noi si sia coltelli o cucchiai, o se preferisci: siamo tutti blu.

Gualtiero Tronconi

Il cliente sa cosa vuole

Oggi voglio raccontarti una piccola storia a proposito del fatto che il cliente sa cosa vuole e noi, spesso, finiamo per volergli vendere altro.

Qualche tempo fa un’amica mi ha detto di essere alla ricerca di un nuovo appartamento da prendere in affitto a Milano.

Mi ha fatto presente le sue necessità: vicino alla metropolitana, in una zona sicura essendo lei da sola, con l’ascensore e una serie di altre caratteristiche.

Spargo la voce all’interno del mio network e salta fuori un bellissimo appartamento con tutte le caratteristiche richieste della mia amica.

A questo punto chiedo la richiesta economica al titolare dell’appartamento e lui mi dice di volere € 1100 al mese.

Parlo con la mia amica, che nel frattempo aveva visto le foto e l’appartamento le era piaciuto, e lei mi dice che purtroppo al momento non può spendere più di 800 al mese.

Un po’ dispiaciuto ricontatto il titolare dell’appartamento e gli comunico la situazione e qui salta fuori il guaio…

«Ma come, io già affitto quasi a equo canone, anzi, appartamenti come il mio andrebbero affittati al 1500, anche 1700 euro. Ho appena rifatto il bagno, la caldaia e nuova e poi…»

Lascio a te aggiungere il resto.

Cosa è successo?

Fondamentalmente due cose:

  • il venditore ha preso il “no” sul personale;
  • il venditore non ha ascoltato il cliente (neanche a posteriori).

Chiarisco meglio

Nessuno ha detto che il prezzo proposto fosse scorretto, alto, non adeguato o che l’appartamento fosse brutto… semplicemente non era nella fascia di prezzo giusta per la cliente.

E tu, venditore, non è che puoi viverti male il fatto che il tuo cliente non si possa permettere il tuo prodotto o servizio, ne puoi andare a vendere sottocosto per accontentare chiunque.

Ma voglio soffermarmi maggiormente sul secondo punto.

Se vogliamo cavarci d’impiccio la questione prezzo, che spesso è causa di pessime pensate e convinzioni ultra-limitanti, facciamo un altro esempio.

Vado da un concessionario, voglio proprio comprare una bella utilitaria, mi serve che sia 5 porte, la desidero blu e ho i soldi per comprarla.

A questo punto il venditore, che appena ho messo piede nel salone ha già deciso cosa deve vendermi per far contento il direttore commerciale, attacca:
«Guardi, ho proprio quello che fa per lei, per la stessa cifra di quella piccola utilitaria che lei vorrebbe, posso darle questa berlina»

Ci penso un po’ sopra e poi mi rendo conto che spenderei di più di bollo, di benzina, avrei problemi di parcheggio e che, fondamentalmente, a me serve un’utilitaria.

Ma di più, io ti ho detto che voglio un’utilitaria e allora perché per prima cosa mi proponi una berlina? E chi ti ha detto che io una berlina non l’abbia già? E per quale motivo ti sei creato la convinzione che il prezzo fosse un problema o un argomento?

Vedete cosa succede, noi venditori prendiamo le nostre convinzione, la nostra mappa, per usare i termini della PNL, e la sovrapponiamo a quella dei clienti.

Inoltre ci aggiungiamo le “offerte” del momento, cioè quello che la direzione caldamente ci “consiglia” di vendere in quel momento e, alla fine, noi dimentichiamo la cosa più importante… ascoltare il cliente.

Una strategia differente

Se il commerciale dell’autosalone mi avesse ascoltato, mi avrebbe probabilmente fatto vedere la migliore utilitaria possibile, lodandone le qualità che io cercavo, facendomi scoprire tutti i tipi di blu in cui avrei potuto averla, proponendomi di provare a sedermi, scoprendo come fosse comoda anche se piccola, magari accendendo anche il motore per sentirne il suono.

A questo punto avremmo parlato di soldi e solo lì avrebbe potuto introdurmi l’offerta sulla berlina, altrettanto bella, blu, ma ancora più comoda e potente.

Tutto questo però restando sempre con tutta la sua attenzione su di me, cosa gli ho detto quando ho visto l’utilitaria, che cosa ho osservato, su cosa mi sono soffermato, che parole ho usato.

In più facendomi qualche domanda di processo, perché voglio proprio un’utilitaria, a cosa mi serve, come scelgo di solito le mie auto, perché sono andato da loro e non presso un’altra marca.

Più il nostro cliente ci parla più potremo offrirgli quello che sta esattamente cercando, rendendo lui un cliente felice e soddisfatto (e fidelizzato) e noi più vicini di un contratto al raggiungimento dei nostri obiettivi del periodo.

Gualtiero Tronconi

Il tono definisce l’azienda

Harry Hart, protagonista del film “Kingsman: Secret Service“, ama ripetere «I modi definiscono l’uomo», parafrasandolo noi potremmo dire che “Il tono definisce l’azienda”.

Ma partiamo dalle basi e rendiamo la questione il più semplice e chiara possibile.

È una questione di tono

Nella vita, lo sappiamo bene, spesso tutto si riduce a una questione di tono. Posso dire qualsiasi cosa, anche la più dura e la più scabrosa, basta che io lo faccia nel modo giusto.

Tutto questo è vero anche nel mondo della comunicazione “aziendale”.

Quindi, come ti anticipavo nell’articolo “Scrivere per il web… efficacemente“, decidere il tono con cui la tua azienda parla con i suoi clienti è un fattore da tenere in grande considerazione quando progetti una qualsiasi azione di marketing.

Tone of voice

Viene definito “Tone of voice”:

il “tono di voce” che si vuole dare alla comunicazione, in armonia con l’identità di marca; definisce il carattere e la personalità che si vogliono costruire per un prodotto o un brand.

www.glossariomarketing.it

Secondo questa definizione gli elementi che entrano in campo per la definizione del nostro tono di voce sono:

  • l’identità di marca
  • il carattere
  • la personalità
  • il brand

Questi sono tutti fattori concatenati che alle volte arrivano anche a sovrapporsi ma che, in ogni caso, devono essere frutto di una riflessione che si risolva in una vera e propria strategia comunicativa in grado di reggere nel tempo pur potendosi adattare agli inevitabili aggiustamenti che bisogna mettere in campo quando si passa “dalla teoria alla pratica”.

Facciamo qualche esempio

Partiamo da un’azienda che conosci di sicuro, RedBull con il suo “Ti mette le aliiii” ha stabilito un tone of voice con tutta una serie di caratteristiche ben definite e molto marcate.

Intanto da “del tu”, non è che mette le ali a chi la beve, le mette a TU quando la bevi.

Tutte le sue campagne pubblicitarie sono fatte a cartone animato e hanno come fil rouge l’irriverenza e situazioni al limite del surreale, divertenti.

Ha legato indissolubilmente il suo brand agli sport estremi, quindi a persone che compiono imprese che sembrano impossibili, proprio come avere le ali.

Un altro esempio che puoi prendere in considerazione è Banca Mediolanum.

I consulenti di questa banca sono chiamati Family Banker e tutta la banca è “Costruita intorno a te”.

Tutta la comunicazione che esce dall’istituto di credito vuole essere intesa come familiare, il fondatore Ennio Doris (da poco scomparso) ci ha messo la faccia per anni e poi ha introdotto la sua di familia, facendo comparire il figlio.

Quindi non devi andare te in banca, siamo noi che veniamo nella tua casa, nella tua familia, per aiutarti a gestire il tuo denaro, c’è dell’emozione in questo.

Tutto questo mantenendo comunque un tono rispetto e concreto.

Partiamo da un paio di domande

Ecco qualche domanda che sicuramente ti sei posto, o avresti dovuto porti, nel momento in cui progettavi, per esempio, il tuo sito internet:

  • ai tuoi clienti dai del “tu” o del “lei”?
  • dell’azienda parli al singolare o al plurale?
  • hai una formula con cui saluti alla fine di ogni comunicazione?
  • hai un “dizionario aziendale”, una lista di parole SI e parole NO?
  • sai esattamente come parlano i tuoi clienti, che parole usano?

Un po’ più in profondità…

Se alle domande sopra hai risposto per la maggior parte “SI”, ora affrontiamo un altro tema importante per te.

Se invece hai risposto “NO”, messo a posto quanto sopra torna a questo paragrafo…

Infatti, come sempre, c’è uno step in più da fare, che in realtà andrebbe fatto prima.

Tutto parte, ma proprio tutto, dalla domanda chiave: «Chi sei?».

Cosa rappresenta la tua azienda, cosa fai, come lo fai e perché lo fai…

Stiamo parlando di quella che viene definita “Cultura Aziendale”.

Cosa definisce la Cultura Aziendale

Gli elementi che, a livello scolastico, compongono la Cultura aziendale sono:

  • Vision
  • Mission
  • Valori Aziendali

I primi due li abbiamo analizzati qualche tempo fa nell’articolo “Vision e mission per tracciare la rotta aziendale“.

Dei valori parleremo nel futuro in un articolo dedicato a questo fondamentale argomento.

Ciò che vorrei ti fosse chiaro in questa occasione è che:

  1. La Cultura Aziendale non è qualcosa che si scrive su un cartellone e si appende a un muro dell’ingresso dell’azienda. Si tratta di parole “vive”, di parole che devono diventare azioni, comportamenti, stile di vita e di comunicazione.
  2. Una Cultura Aziendale forte, ben definita e che risulti coerente con la vita quotidiana dell’azienda ti garantirà una fidelizzazione costante dei collaboratori, dei dipendenti e anche dei clienti.

Uno strumento che può aiutarti

Finiamo questa dissertazione sul tono di voce con uno strumento, una sorta di mappa, che può tornarti utile per definire il tuo tone of voice e mantenere la rotta mentre progetti la tua comunicazione.

Sto parlando delle quattro dimensioni del tone of voice:

DivertenteneutroSerio
FormaleneutroCasual
RispettosoneutroIrriverente
EntusiastaneutroConcreto

Il tuo tono si posizionerà sempre in un punto tra queste quattro dimensioni, decidi tu dove e poi mantieni la coerenza.

Ma voglio farti un esempio per renderti più chiara possibile la cosa.

Proviamo un messaggio di errore, per esempio del tuo sito, serio, formale, rispettoso e concreto .

“Ci scusiamo, ma stiamo riscontrando un problema”.

Ora, proviamo a spostare il nostro messaggio nella direzione casual .

“Siamo spiacenti, ma stiamo riscontrando un problema da parte nostra.”

Cosa è cambiato?

  • “Ci scusiamo” diventa “Siamo spiacenti”
  • L’aggiunta dell’espressione “dalla nostra parte”

Aggiungiamo un po’ più di entusiasmo al messaggio, inteso come una componente emozionale/emotiva.

“Ops! Siamo spiacenti, ma stiamo riscontrando un problema da parte nostra”.

Se aggiungessimo un tentativo di umorismo e un po’ di irriverenza, avremo portato lo stesso messaggio con un tono di voce completamente diverso.

“Che cosa hai fatto!? L’hai rotto! (Sto scherzando. Stiamo riscontrando un problema da parte nostra.)”

Gualtiero Tronconi

Immagina le immagini

Ok, so di rischiare di diventare un po’ ripetitivo ma nella comunicazione, soprattutto quella aziendale, nulla può essere lasciato al caso. Abbiamo parlato ti blogging, di colori, ora immagina di avere a tua disposizione tutte le immagini del mondo, quale scegliere per rappresentarti?

Torniamo sempre alle stesse domande:

  • A chi stai parlando?
  • Di cosa stai parlando?
  • Come ne stai parlando?

So di essere tedioso ma tutto parte da lì, da scelte importanti e che dovrebbero determinare li stile e i contenuti di tutta la tua comunicazione.

Immagini e colori

Per prima cosa, immaginando che tu abbia già letto l’articolo “Un colore vale l’altro“, partiamo dal fatto che immagini che userai dovranno essere cromaticamente coerenti con i tuoi “colori aziendali”.

Per essere chiari fino in fondo, se il tuo colore è il rosso, tipo Coca-Cola, nell’home page del tuo sito le immagini avranno colori della stessa gamma o, perlomeno, accessi come quelli del tuo logo.

Se invece ha un blog tipo quello di Paola Velati le immagini che utilizzerai per illustrare i tuoi articoli avranno colori tendenzialmente pallidi e contrasti non troppo accesi.

Dove prendo le immagini?

Questa domanda può avere molte risposte diverse, dipende da cosa devi rappresentare, da cosa stai raccontando e da qual è il tuo core business.

Mettiamo il caso tu sia un centro estetico o un dentista… certamente non userei foto di stock.

Cosa si intende con questo termine? Faccio riferimento a tutta una serie di siti, gratuiti o a pagamento, dove posso scaricare immagini generiche per i miei progetti.

Questo tipo di immagini non possono, e non devono, essere usate come sostituti di una foto del prodotto o del luogo reale.

Quindi se hai uno studio, un negozio, un locale… mettiti nell’ordine di idee di chiamare un fotografo professionista, non l’amico con il cellulare ultimo grido, e fatti fare delle foto.

Già che stai pagando, fanne fare tante, anche più di quelle che ti servono nell’immediato, ti torneranno utili in futuro e, normalmente, i fotografi si fanno pagare a tempo (mezze giornate) e non a scatto.

E se vendo qualcosa?

Anche in questo caso, il consiglio è quello di rapportarsi con dei fotografi specializzati in still-life, fotografie statiche di oggetti.

Questo ti permetterà di avere foto omogenee e che presentino al meglio il tuoi prodotti.

Tieni presente che esistono fotografi specializzati in ogni genere di scatto, io personalmente ne ho conosciuti che facevano solo foto di moto, di camion, di cucina, di elettronica, di ritratti, di viaggio…

Quindi scegli il professionista giusto per te, che abbia l’attrezzatura e l’esperienza giusta per ottenere gli scatti che desideri e meriti.

E se non vendo nulla?

In questo caso sei autorizzato a rivolgerti ai siti di stock images…

Scherzi a parte, esistono banche date enormi in cui trovare immagini di ogni tipo, l’importante è sapere cosa cercare e aver la pazienza di trovare la foto giusta per le tue esigenze.

Non accontentarti del primo scatto che ti viene proposto, prosegui la ricerca, raffinala e troverai qualcosa che ti rappresenti al meglio.

È una questione di occhio

Anni fa, quando con Sandro Iovine ci occupavo della rivista “Il Fotografo”, la scelta delle immagini per ogni singolo articolo era un tema di discussione continuo e importante.

  • Cosa si vede prima in una pagina/schermata?
  • Dove viene indirizzato l’occhio dalla composizione dell’immagine?
  • Come si collegano tra loro le immagini?
  • Qual è la giusta sequenza in cui presentarle?
  • Che cosa raccontano queste immagini messe in questo ordine?

Domande di questo tipo erano all’ordine del giorno e, onestamente, tutto ciò mi ha portato a guardare ogni singola immagine, ma anche la scatola dei cereali del mattino, con un occhio diverso.

È un discorso analogo a quello che fanno coloro che vengono a seguire un corso Practitioner di PNL e incontrano per la prima volta il Meta Modello, con il quale è possibile sfidare e smascherare le convinzioni limitanti e ricollegare le persone alla realtà dei fatti.

Dopo aver scoperto il Meta Modello non sarai più in grado di leggere un giornale o di sentire una pubblicità nello stesso modo di prima,

Allo stesso modo scoprendo i fondamenti della lettura delle immagini, il mondo ti apparirà diverso e il tuo modo di utilizzare le immagini non sarà più lo stesso.

Si tratta solo di acquisire alcune informazioni, qualche competenza e poi fare tanto esercizio.

Gualtiero Tronconi

Le regole per videoconferenze efficaci

Fino ai primi di Marzo del 2020 le videoconferenze erano una realtà riservata ad alti dirigenti di multinazionali o a nerd e appassionati di tecnologia.

Da allora molte cose sono cambiate e programmi come ZoomGoogle MeetMicrosoft Teams e altri sono diventati parte integrante della vita di molti, direi quasi tutti.

Noi abbiamo tenuto il nostro prima webinar live in streaming l’8 marzo 2020, ancora lo ricordo, e da allora abbiamo avuto il piacere di “ospitare” sui nostri schermi migliaia di persone e, detto onestamente, ne abbiamo viste di ogni…

Così abbiamo deciso, come nei corsi di Public Speaking, di dare qualche suggerimento tecnico/pratico per evitare figuracce durante le tue video call e riuscire a trasmettere al meglio ciò che devi comunicare.

Fai vedere quel che vuoi

Abbiamo visto persone collegate da qualsiasi luogo, con sfondi improponibili e, alle volte, imbarazzanti.

Quindi, prima di iniziare, scegli bene dove posizionarti in modo che il tuo sfondo sia “sobrio”, il più possibile neutro o caratterizzante, tipo una bella libreria o altro. In ogni caso verifica sempre, prima di iniziare una call, che dietro di te ci sia ordine e che si possano vedere solo cose che vuoi che vengano viste…

Nella scelta del tuo posizionamento tieni anche presente il resto dell’umanità… evita di avere luoghi di passaggio dietro di te onde evitare che figli in pigiama, coinquilini o compaiano nella tua inquadratura.

Fai sentire quel che devi

Un’altra delle regole per una videoconferenza efficace riguarda l’audio.

È importante che le persone in call con te possano sentire bene quel che dici, senza rumori di fondo e senza distorsioni.

Così come è altrettanto importante che non sentano affatto ciò che non devono sentire: squilli del telefono, chiacchiere di sottofondo, sgranocchiamenti di snack e altro.

Una buona idea può essere quella di usare cuffie, anche se io le trovo fondamentalmente anti-estetiche, o degli auricolari con microfono integrato.

Per quel che mi riguarda io adotto questo sistema e solo auricolari con cavo, non voglio essere schiavo della carica residua e, magari, essere lasciato a piedi a metà di una presentazione.

Per quanto riguarda l’audio, ricorda anche quello che ci insegna la PNL, ci sono persone per cui l’udito è fondamentale nell’interfacciarsi con il mondo (ne abbiamo parlato in questo aritcolo), io per esempio, e una voce gracchiante, il volume che non sia stabile o i rumori dei lavori in casa dal tuo vicino potrebbero distrarle in maniera “fatale” da ciò che stai dicendo.

Occhio alla linea

Verifica sempre la tua linea internet, utilizza strumenti come lo speed test,

Google consiglia, per l’utilizzo di Meet, una banda superiore ai 2,0 MPS.

Tieni presente che la condivisione di slide mentre parli necessità di ulteriore banda e che più partecipanti vuoi visualizzare in contemporanea, più band verrà richiesta della videoconferenza.

Luci, motore, azione…

Non serve avere informazioni di fotografia cinematografica per avere una buona illuminazione durante le tue videoconferenze, ma qualche nozione base è fondamentale.

Posizionati, se puoi, vicino a una fonte di luce naturale, una finestra, ma assicurati che non sia dietro di te o troppo vicina. Meglio sarebbe che fosse davanti a te, nel caso aiutati con una ring light, ne esistono in commercio a partire dai 50 euro circa.

Piano americano, primo piano, close-up

Anche per quanto riguarda il posizionamento delle telecamera, è importante conoscere un paio di regole essenziali per una videoconferenza efficace.

Il tuo dispositivo, smartphone o computer che sia, deve essere posizionato possibilmente a trenta centimetri dal tuo viso e inquadrarti a mezzo busto e centrato.

Piazza la telecamera a livello degli occhi e mai oltre l’attaccatura dei capelli e durante il video ricordati di guardare nella webcam per dare l’impressione di guardare l’interlocutore nel volto, per dimostrarti attento e convincente.

L’abito fa il monaco

Per quanto possa sembrarti strano, il modo in cui sei vestito, influenza il modo in cui ti senti, se decidi di partecipare a una riunione di lavoro importante, con le ciabatte e i bermuda, tanto non ti vedono, potrebbe succedere che tu possa risultare poca professionale nel tuo modo di svolgere la riunione.

Quindi vestiti come se dovessi andare in ufficio, o meglio che se tu dovessi fare un pomeriggio davanti a Netflix.

Truccati, pettinati e sbarbati, questi gesti sono “ancore” che ci fanno entrare in “modalità lavorativa” e ci aiutano a concentrarci e a prepararci alla “performance”.

Ultime regole per videoconferenze efficaci

Ancora un paio di raccomandazioni:

  • non magiare con la webcam accesa;
  • spegni il microfono quando non stai parlando;
  • intervieni solo se hai qualcosa da dire di importante;
  • non sovrapporti al discorso degli altri;
  • fai sempre dei test, anche quando modifichi un solo elemento del tuo set-up.

Gualtiero Tronconi

È possibile vivere di coaching in Italia?

Tutti coloro che negli ultimi anni hanno voluto accedere alla Coaching School di Accademia hanno sostenuto un colloquio iniziale, negli ultimi cinque anni il 90% di questi hanno parlato con me e la prima domanda che mi aspetto tutte le volte è: «È possibile vivere di coaching in Italia?».

Il fatto strano è che in realtà poche persone mi fanno questa domanda, direi circa il 50%, cosa che mi lascia sempre un po’ stupito.

Una premessa

Se andrai avanti nel leggere questo articolo di prego di tenere presente che la parte “romantica” della professione del Coach, l’aspetto umano, la soddisfazione di aiutare gli altri, la gioia e l’amore che possiamo mettere in questa attività sono le ragioni per cui tutti noi di Accademia facciamo quello che facciamo.

Ma…

Oggi ti voglio parlare di un mestiere, di un’attività professionale che dovrebbe restituire un fatturato e permetterti di vivere secondo i tuoi desideri.

Quindi, per te che fai parte di quelli che in un futuro incontro mi avresti posto la fatidica domanda e, soprattutto, per quelli a cui non verrebbe in mente di farla, ecco alcuni spunti di riflessione.

Un po’ di numeri

Partiamo da un po’ di dati, li ho già pubblicati qualche tempo fa in questo articolo I Numeri del Coaching ma riporto qua di seguito quelli della situazione europea per tua comodità:

  • Il fatturato medio annuo di un coach in Europa è di:
    46.000 euro
  • La tariffa media per una sessione di life coaching è di:
    100/150 euro
  • Il mercato europeo del coaching si aggira intorno agli:
    800 milioni di euro

Cosa dicono questi numeri

Vediamo di dare un senso a queste statistiche e medie.

Il fatturato medio ci dice che in Europa è possibile vivere di coaching, e possiamo desumere anche in Italia.

Ricordiamoci però che dietro questa media ci saranno “picchi e valli”, un po’ come nella “media del pollo” del poeta Trilussa: tra chi mangia un pollo intero e chi nulla, in media abbiamo mangiato mezzo pollo a testa.

Quindi c’è il rischio di essere dalla parte di quelli che il pollo non lo vedono proprio.

La tariffa media ci fa subito capire che per vivere di life coaching si deve avere un numero di coachee, a dir poco, importante.

Infatti, oltre a non poter chiedere cifre fuori mercato, bisogna tenere presente che il coaching è una disciplina per sua natura veloce, non esistono percorsi di coaching che durino anni, come avviene per esempio nella terapia, quindi un life coach dovrà continuamente acquisire nuovi clienti per mantenere il suo fatturato.

La grandezza del mercato del coaching ci aiuta a comprendere che si tratta di una disciplina ormai riconosciuta e che, malgrado alcuni personaggi discutibili, ha anche una sua credibilità.

Quindi cosa fare?!?

Qualche tempo fa ho espresso il mio parere e dato alcuni suggerimenti sulle scuole di coaching e su questa professione: “Professione Coach: realtà e fantasia“.

Rileggendo oggi quello che ho scritto allora trovo sia ancora tutto attuale e corretto ma mi fa piacere riordinare per te le idee e aggiungere qualcosa in un decalogo:

  1. Parti dai tuoi valori: per valori intendiamo le cose davvero importanti per te, le cose che devono esserci nella tua vita perché possa definirla soddisfacente.
    Se la sicurezza finanziaria è un valore per te, forse una libera professione come quella del Coach non è la soluzione ideale.
    Se dare il tuo contributo è un valore per te, valuta se il modo migliore per farlo sia il Coaching, potrebbe.
  2. Fai un Business Plan: quanto vorresti guadagnare, quanto dovresti guadagnare, quanto potresti guadagnare…
    Non si tratta di un gioco di parole, se ho un mutuo è tre figli da mantenere avrò delle necessità diverse da un single che vive con i genitori.
  3. Guarda dove vivi: sembrerà brutto, ma il paesino affogato nella campagna lucana non è forse la location ideale dove iniziare la tua attività di Coach.
    Ricorda che parliamo di una figura professionale nuova, su cui esistono dei pregiudizi.
  4. Quali alternative hai: fare un po’ di chunking laterale è sempre una buona idea mentre si sviluppa un progetto.
  5. Scegli attentamente con chi formarti: il passaparola è fondamentale, se non sei sufficientemente preparato i tuoi coachee non saranno soddisfatti e la tua attività sarà morta prima ancora di partire.
  6. Continua a formarti: non accontentarti di quello che hai appreso, mai.
  7. Non esiste “Life VS Business”: l’attività con le aziende e i manager sono un buono strumento per permetterti di “comprare” parte del tuo tempo permetterti di fare life coaching.
  8. Assieme è più facile: soprattutto nell’ambito business, ma non solo, essere parte di una associazione o avere alle spalle una società è un sicuro plusvalore.
  9. Parti con calma: mantenere un lavoro che non ti soddisfa, chiedendo magari un part-time, può aiutarti e regalarti un po’ serenità nel far partire il volano degli affari come coach.
  10. Roma non è stata costruita in un giorno

È possibile vivere di coaching in Italia?

Torniamo quindi alla nostra domanda iniziale e cerchiamo di trovare la risposta.

È possibile tanto quanto è possibile iniziare una qualsiasi attività “consulenziale”.

È possibile tanto quanto impegno decidi di metterci, tanto quanta resilienza dimostrerai di avere, tanto quanto amore vorrai investire in questa attività.

Noi possiamo dirti che molti tra gli studenti delle nostra Coaching School decidono di non trasformare questa attività in una professione.

Altri lo hanno fatto e alcuni stanno raccogliendo buoni frutti, con tutto l’impegno, ma anche le soddisfazioni, che questo comporta.

Alla fine, l’unica risposta che posso darti è:

Come raggiungere un traguardo? Senza fretta, ma senza sosta.

Johann Wolfgang von Goethe

Gualtiero Tronconi

La scrittura è un muscolo

Dove avrò sentito già questa affermazione «La scrittura è un muscolo»? Se te lo stai chiedendo davvero la risposta si trova qui: Scrivere per il web efficacemente.

Ma oggi voglio raccontarti da dove nasce questo mio modo di dire e per farlo devo andare indietro di qualche anno.

Torniamo alle medie

Fino alla terza media sono sempre stato uno dei più bravi della mia classe, me la giocavo con Rossana, una compagna molto brava e diligente che mi ha accompagnato dalla prima elementare fino alla quinta superiore.

Uno dei motivi per cui Rossana riusciva a bagnarmi il naso si trovava nei miei voti nei temi, un disastro.

Tendenzialmente io sapevo di cosa scrivere, anche con delle idee carine, ma non avevo la minima idea di come riportarle in modo perlomeno leggibile su un foglio.

Questo, e i voti derivanti da questo, mi hanno pian piano fatto disinnamorare della scrittura finché…

Passiamo alle superiori

Arrivato alle superiore la gara tra me è Rossana non c’è più stata, lei è rimasta brava e diligente, io sono diventato il classico adolescente rompiscatole che cercava di trovare una sua identità ficcandosi nei guai e lavorando poco.

In tutto questo marasma di ormoni, pseudo-protesta e svogliatezza restava un solo faro a illuminare fiocamente il mio futuro, il mio grande amore per la lettura e qui si è andato ad infilare il Prof. Umberto Fiori.

Amavo le sue lezioni e lui era sufficientemente “matto” da andare oltre il mio brutto atteggiamento e il mio non fare neanche un compito a casa, abbastanza serio da prendere sul serio la mia testolina adolescenziale e anche abbastanza rigido da rimandarmi a settembre in Italiano con l’8 nell’orale e il 5,5 nello scritto.

L’ho odiato… per più di un mese avrei voluto vederlo morto, ma morto male.

I miei genitori mi hanno massacrato di ripetizioni per tutta l’estate, anche ad agosto, malgrado fossimo andati al mare, riuscirono a trovare un professore che mi desse ripetizioni di italiano.

Epifania

Il prof, di cui purtroppo non ricordo il nome, fece ciò che nessuno aveva pensato prima, darmi un metodo per mettere in ordine i miei pensieri prima di scriverli. Perché io sapevo cosa volevo scrivere ma proprio ignoravo come farlo in una forma coerente e, magari, anche piacevole.

Beh, lui trovo il modo, il modo che ancora oggi utilizzo quando sono in crisi o afflitto dalla “sindrome della pagina bianca”.

Un’altra delle cose che mi insegnò fu che scrivendo tutti i giorni un po’, proprio come allenandosi per una maratona, scrivere diventa sempre più facile, sempre più naturale.

Le idee e le parole iniziano a funzionare in sincrono e a fluire dal cervello alle dita, o alla penna, con naturalezza e in scioltezza.

Da qui nacque la frase «La scrittura è un muscolo».

Il metodo

Ora so di rischiare di espormi al ridicolo, il metodo che imparai, e che ancora applico, non ha nulla di trascendentale o di geniale, è semplice e quasi banale e quindi mi scusino tutti quelli che hanno sistemi ben più raffinati.

Il sistema è basato sull’analisi logica.

Parti a scrivere solo periodi principali.

Tutto quello che ti viene in mente riguardo l’argomento di cui devi scrivere.

Non importa l’ordine, non importa lo stile, importa solo che siano tutti periodi principali.

Finito di scrivere tutto, ma proprio tutto, quello che ti viene in mente inizia a dare un ordine di importanza, le 5/10 cose più importanti resteranno in forma di periodo principale, le altre andranno a montarsi come coordinate o subordinate a queste sempre in ordine di importanza.

Quelle più lontane, con importanza bassa, resteranno fuori e saranno magari spunto per altri scritti.

Alla fine metti il tutto nell’ordine giusto, che quindi possa essere interessante e semplice da leggere, e il tuo scritto è pronto.

Tutto qui?

Assolutamente no, questo mi ha permesso di passare dal 5,5 al 6,5 nei temi delle superiori, per arrivare all’8 o al 10 ci sono tanti altri elementi che entrano in gioco.

C’è il ritmo interno delle cose che scrivi, e questo viene dato dalla punteggiatura e dalle parole che usi.

Hai presente quando ascolti un rapper, per esempio Eminem, i suoi testi hanno una ritmica unica, al di là della base musicale, potrebbe cantarli a cappella e avrebbero comunque un ritmo ben preciso.

Questo è uno dei “super poteri” nascosti delle parole, quindi non tutti i sinonimi vanno bene, io l’ho imparato scrivendo poesie, o almeno provandoci, il ritmo è nelle parole stesse basta cercarlo.

Oltre a questo c’è la proprietà di linguaggio e qui, devo dirlo, avevano ragione le nostre mamme quando ci dicevano «Leggere è importante, solo leggendo imparerai a scrivere».

All’epoca mi sembrava un controsenso, ora capisco che aveva ragione, così come aveva ragione a farmi prendere il dizionario e cercare la definizione di ogni parola di cui le chiedessi il significato.

E ci sono tanti altri fattori che entrano in gioco ogni volta che si prende in mano una penna ma la cosa importante che devi ricordarti sempre è una sola: «La scrittura è un muscolo».

Tu allenano e lui non ti tradirà nel momento in cui ne avrai bisogno.

Gualtiero Tronconi