Ciò che fai, ciò che sei

Io… io sono un judoka, sono un chitarrista, sono un genitore, sono un compagno, sono un figlio, sono un amico, sono un coach, sono un insegnante, sono un mentore, sono un poeta…

Sono una sacco di cose e nessuna di esse mi definisce del tutto.

Neanche tutte queste messe assieme riescono a definirmi del tutto.

Io… io faccio il venditore, faccio il padre, faccio il grafico, faccio il marketing manager, faccio il trainer, faccio il consulente, faccio il critico musicale, faccio la guida, faccio il giornalista…

E tutto questo, che faccio talmente tanto da sembrare ciò che sono, mi definisce ancora meno.

Detto tutto questo mi viene difficile dire cosa io sia e questo, nella mia esperienza di coach, vale per me come gli altri.

Sento tutti definirsi per il comportamento che hanno, per ciò che fanno:

  • sono un amministratore delegato
  • sono una persona timida
  • sono un padre di famiglia
  • sono un estroverso
  • sono una persona sorridente

Ma tutto questo non parla davvero di noi, racconta solo ciò che facciamo.

Per capire davvero chi siamo, per entrare nel profondo dei nostri valori, dei nostri desideri, della nostra identità ed essenza bisognerebbe andare un po’ più a fondo.

Tutto questo è quasi impossibile da solo, è difficile non cadere nell’inganno del “raccontarsela”, dell’indorare la pillola o dell’autocommiserazione.

Ci vuole qualcuno che ci aiuti a spacchettare le informazioni, qualcuno che faccia le domande scomode, qualcuno che ci spinga oltre e ci guidi verso la “verità”.

Questo è il ruolo di un coach, almeno uno dei suoi ruoli, guidarti da ciò che credi di essere, da ciò che fai, a ciò che sei o potresti essere.

Insegnare

Ho iniziato a insegnare quando ancora ero molto giovane, avevo la presunzione di poter aiutare gli altri a imparare come suonare la chitarra, cosa che sapevo fare così così anche io…

Ho continuato a dare lezioni per anni, poi per un lungo periodo ho smesso, senza un motivo reale, solo che avevo altre cose più interessanti da fare, altre priorità.

Nel frattempo il palco era diventato una parte importante della mia vita, stare in piedi a suonare davanti a decine, a volte centinaia di persone, era una droga a cui non riuscivo a rinunciare… una vera ossessione, una dipendenza.

Ora sarò estremamente schietto e cercherò di essere il più onesto possibile.

L’energia che ritorna dal pubblico, l’ammirazione, l’enorme massaggio all’ego, al limite del sessuale, sono una cosa difficile a cui rinunciare anche per chi, come me suonava nei locali di Milano e non a Wembley.

Posso dire con certezza che molte delle mie insicurezze giovanili siano state curate dagli applausi del pubblico. Posso anche dire che molte delle mie “conquiste” siano un dono del palco, senza la chitarra e le luci accese difficilmente alcune delle ragazze che sono state con me mi avrebbero anche solo cagato.

Una volta finito di suonare, e questa è un’altra storia che prima o poi racconterò, l’astinenza è stata tanta… mi mancavano gli occhi addosso, mi mancava essere al centro dell’attenzione, mi mancava l’ammirazione e gli applausi.

Fortunatamente mi proposero di tenere dei corsi di chitarra e, finalmente, capii perché mi piaceva tanto insegnare: cazzo!!! È quasi come stare su un palco!!!

Credetemi se vi dico, ormai sono anni che mi occupo di formazione e ho conosciuto davvero tanti trainer, speaker, oratori e intrattenitori di vario genere è tutti, in un modo o nell’altro, hanno avuto la mia stessa epifania e il mio stesso bisogno di ammirazione.

Ammetto che il brivido di vedere gli occhi dei corsisti che ti guardano come se tu potessi sapere tutto quello che loro ignorano è davvero piacevole, poi possiamo tentare di sublimare la goduria raccontando che ci piace arricchire la vita degli altri, che amiamo vedere le persone che crescono, che adoriamo essere un gradino nella scala evolutiva delle persone e via così…

La verità è che siamo tutti di fottuti egocentrici!!!

Ci piace essere lì, ci piacciono le luci addosso, gli occhi addosso… godiamo a fare i fighi che sanno quello che gli altri non conoscono…

Detto tutto questo mi sorge spontanea una domanda, che faccio a me stesso: ma alla fine allora dovrei smetterla, sto facendo qualcosa di male?

Qualche anno fa, nel mio corso di chitarra base, si è presentata una simpatica signora di oltre settanta anni. Era una nonna, con problemi di artrite, che sognava di imparare a suonare la chitarra per poter condividere la passione per la musica dei nipoti, uno batterista e l’altro bassista.

Dopo mesi di impegno, suo e mio, serate a trovare strategie per farle imparare gli accordi con dittaggiature modificate che la sua artrite le permettesse di eseguire, dopo ore a ripeterle come tenere il tempo…

Beh… il video della band nonna e nipoti è un ricordo che porterò nel cuore per sempre e uno dei più grandi motivi di orgoglio della mia vita…

Scrivere

Un tempo, quando mi chiedevano quale fosse il mio lavoro la risposta era facile: io scrivo…

In realtà, ora che la risposta è molto più impegnativa e lunga, mi rendo conto che scrivere è, ed è stato, più di un lavoro per me, una vera è propria esigenza, una necessità.

Non è sempre stato così, da piccolo odiavo scrivere… sono anche stato rimandato in italiano in prima superiore perché i miei temi erano mal scritti, belle idee ma messe giù alla meglio.

Poi ho scoperto la magia delle parole, ho scoperto che hanno un suono, un ritmo. Ho scoperto che messe in un certo ordine possono fare miracoli, possono far piangere le persone, oppure farle ridere, oppure confonderle fino a perdersi…

Ora, in un’epoca in cui mettere la punteggiatura in un messaggio è “una roba da vecchi sfigati”, io non mi arrendo e, ora che non mi pagano per farlo, posso armarmi di cesello come un ebanista per scegliere ogni singola parola che scrivo, posizionare con la calma di uno scacchista la punteggiatura, selezionare come uno stratega quando far scendere in campo un verbo o un altro.

Scrivere per me è comunicare, a un livello più profondo, più intimo, assomiglia molto a suonare, è mettersi a nudo, immaginare le reazioni degli altri e reagire a tua volta, una danza senza musica, un solitario passo a due, un duetto immaginario con il lettore.

Allora, anche se sempre meno, ogni tanto prendo in mano la penna e indugio in questa pratica di onanismo in pubblico, come un suonatore di strada che se ne fotte dei passanti al punto da farli fermare tutti a sentire le sue note…

Suonare

È difficile per me raccontare cosa sia la chitarra.

Non parlo del pezzo di legno con sei corde attaccate, parlo della voce di quello strumento, che sia io a suonarla o che sia Eric Clapton live al Budokan di Tokyo nel 1979 (Just One Night) che intona Double Trouble…

Quando sento quella voce, quel bending che sembra strappare la carne dalle ossa non posso che innamorarmi nuovamente di questo strumento, ogni volta come la prima volta.

Racconto sempre che la chitarra mi ha salvato la vita, credo profondamente sia vero,. Mi ha portato fuori dalla brutta zona dove sono cresciuto, mi ha fatto suonare con gente diversa, in tutti i sensi possibili, ha dato uno scopo ai miei pomeriggi.

La musica è sempre con me e, come potrai indovinare, più chitarre ci sono più mi piace… che sia il re del riff e dell’accompagnamento Jimmy Page o il dio della sei corde Jimi Hendrix, passando per l’acustica di Michael Hedges o di John Butler.

Non importa che siano vecchi dischi come Lucille di B.B. King del 1968 o Passion and Warfare di Steve Via del 1990 o addirittura The Story of Sonny Boy Slim di Gary Clark Jr. del 2015

Non importa che sia texas blues come Stevie Ray Vaughan o jazz Wes Montgomery o hard rock come Angus Young o sperimentale come Robert Fripp o classico come Eliot Fisk o folk come John Renbourn, basta che sia musica, basta che sia chitarra.

Roberta, la mia compagna, dice che quando suono sembra sempre che io soffra, forse perché quella è la voce del mio dolore, è il modo migliore che ho trovato per dire tutto ciò che è inconfessabile, impronunciabile, sconveniente e offensivo, e la voce della mia rabbia e della mia frustrazione, del mio dolore e della mia tristezza.

Un giorno Bebo, il più piccolo dei figli di Roberta, mi ha chiesto come mai siano più belle le canzoni tristi di quelle allegre e io gli risposi che quando uno è allegro va fuori con la sua bella e non sta in casa a suonare, va al mare, esce con gli amici… è quando ai quell’enorme rospo da ingoiare che a volte è la vita che prendi in mano la tua chitarra preferita e inizia la catarsi, il viaggio alla scoperta di un posto luminoso e pieno di pace al di là di della mediocrità che cerca di ingoiarci.

Quindi, io non so se esista un dio, non so davvero, se ci fosse lo ringrazierei certamente per aver dotato l’uomo dell’ingegno sufficiente a costruire una chitarra.