Le parole per unire (e dividere)

Durante uno dei pranzi con i partecipanti dell’ultimo Practitioner è venuto fuori un argomento interessante che mi ha dato da riflettere sull’uso che si può fare delle parole per unire… e per dividere.

Ripetiamo da ormai anni che le parole hanno un potere magico, citando Freud, cioè la capacità di creare rappresentazioni nella mente di chi le pronuncia e di chi le ascolta.

Quindi, se è vero che un oggetto, una sensazione o un concetto senza nome restano entità poco chiare nella nostra mente, è anche vero che dare un nome a qualcosa significa metterlo sotto un riflettore e “separarlo” dal resto.

Un esempio della prima realtà è riscontrabile nel concetto di intelligenza emotiva, tutte le ricerche dimostrano che dare un nome alle proprie emozioni permette un miglioramento nella gestione di quelle negative (per esempio Putting feelings into words: affect labeling disrupts amygdala activity in response to affective stimuli di Matthew D Lieberman 1, Naomi I Eisenberger, Molly J Crockett, Sabrina M Tom, Jennifer H Pfeifer, Baldwin M Way – 2007).

Chiama le cose con il loro nome

Secondo alcune religioni e credenze ancestrali, tutte le creature hanno un nome “pubblico”, conosciuto a tutti, e un “Vero Nome” o “Nome Segreto”. Conoscere il Nome Segreto di una creatura darebbe la possibilità di controllarla.

Questo per dire che conoscere, o addirittura, dare un nome a qualcosa vuol dire esercitare un potere su di essa, e non solo.

Se ti dicessi che nel primo cassetto a destra della mia cucina si trovano le posate otterrei un effetto diverso rispetto a dire che forchette, coltelli e cucchiai si trovano nel primo cassetto a destra.

Dare un nome specifico a ciascuna posata, crea distinzioni, quindi divide e separa.

Un altro esempio può essere quello dei colori, chi si occupa di grafica ha un “vocabolario” di colori molto più ampio delle altre persone.

Quindi per un grafico non esiste solo il “blu” ma, per esempio, il ceruleo, carta da zucchero, savoia, indaco, elettrico, cadetto, acciaio, polvere, acqua, notte e via così…

Per lui esistono differenze che le persone non hanno, per lui un blu non vale l’altro, alcuni sono più di suo gusto e altri meno.

Implicazioni sociali

Quando, a livello sociale, iniziamo a dare nomi a correnti politiche, preferenze personali o altro otteniamo quindi due effetti.

Il primo è quello di puntare un virtuale occhio di bue su quella realtà, lo portiamo alla luce, lo sveliamo al mondo.

Il secondo è quello di distinguerlo e, di conseguenza, di separarlo dal resto.

Creiamo delle differenze tra quello e il resto.

Credo sia implicita la pericolosità di tutto ciò, è un attimo creare un “noi VS loro” nel momento in cui possiamo dare un nome a “loro”.

Penso quindi che si debba sempre valutare con attenzione la possibilità di darsi un nome o di “reclamarne” uno, perché se è vero che questo può darci un riconoscimento, il rovescio della medaglia è che rischia di far dimenticare che in fondo, siamo tutti “posate”, che noi si sia coltelli o cucchiai, o se preferisci: siamo tutti blu.

Gualtiero Tronconi

Le regole per videoconferenze efficaci

Fino ai primi di Marzo del 2020 le videoconferenze erano una realtà riservata ad alti dirigenti di multinazionali o a nerd e appassionati di tecnologia.

Da allora molte cose sono cambiate e programmi come ZoomGoogle MeetMicrosoft Teams e altri sono diventati parte integrante della vita di molti, direi quasi tutti.

Noi abbiamo tenuto il nostro prima webinar live in streaming l’8 marzo 2020, ancora lo ricordo, e da allora abbiamo avuto il piacere di “ospitare” sui nostri schermi migliaia di persone e, detto onestamente, ne abbiamo viste di ogni…

Così abbiamo deciso, come nei corsi di Public Speaking, di dare qualche suggerimento tecnico/pratico per evitare figuracce durante le tue video call e riuscire a trasmettere al meglio ciò che devi comunicare.

Fai vedere quel che vuoi

Abbiamo visto persone collegate da qualsiasi luogo, con sfondi improponibili e, alle volte, imbarazzanti.

Quindi, prima di iniziare, scegli bene dove posizionarti in modo che il tuo sfondo sia “sobrio”, il più possibile neutro o caratterizzante, tipo una bella libreria o altro. In ogni caso verifica sempre, prima di iniziare una call, che dietro di te ci sia ordine e che si possano vedere solo cose che vuoi che vengano viste…

Nella scelta del tuo posizionamento tieni anche presente il resto dell’umanità… evita di avere luoghi di passaggio dietro di te onde evitare che figli in pigiama, coinquilini o compaiano nella tua inquadratura.

Fai sentire quel che devi

Un’altra delle regole per una videoconferenza efficace riguarda l’audio.

È importante che le persone in call con te possano sentire bene quel che dici, senza rumori di fondo e senza distorsioni.

Così come è altrettanto importante che non sentano affatto ciò che non devono sentire: squilli del telefono, chiacchiere di sottofondo, sgranocchiamenti di snack e altro.

Una buona idea può essere quella di usare cuffie, anche se io le trovo fondamentalmente anti-estetiche, o degli auricolari con microfono integrato.

Per quel che mi riguarda io adotto questo sistema e solo auricolari con cavo, non voglio essere schiavo della carica residua e, magari, essere lasciato a piedi a metà di una presentazione.

Per quanto riguarda l’audio, ricorda anche quello che ci insegna la PNL, ci sono persone per cui l’udito è fondamentale nell’interfacciarsi con il mondo (ne abbiamo parlato in questo aritcolo), io per esempio, e una voce gracchiante, il volume che non sia stabile o i rumori dei lavori in casa dal tuo vicino potrebbero distrarle in maniera “fatale” da ciò che stai dicendo.

Occhio alla linea

Verifica sempre la tua linea internet, utilizza strumenti come lo speed test,

Google consiglia, per l’utilizzo di Meet, una banda superiore ai 2,0 MPS.

Tieni presente che la condivisione di slide mentre parli necessità di ulteriore banda e che più partecipanti vuoi visualizzare in contemporanea, più band verrà richiesta della videoconferenza.

Luci, motore, azione…

Non serve avere informazioni di fotografia cinematografica per avere una buona illuminazione durante le tue videoconferenze, ma qualche nozione base è fondamentale.

Posizionati, se puoi, vicino a una fonte di luce naturale, una finestra, ma assicurati che non sia dietro di te o troppo vicina. Meglio sarebbe che fosse davanti a te, nel caso aiutati con una ring light, ne esistono in commercio a partire dai 50 euro circa.

Piano americano, primo piano, close-up

Anche per quanto riguarda il posizionamento delle telecamera, è importante conoscere un paio di regole essenziali per una videoconferenza efficace.

Il tuo dispositivo, smartphone o computer che sia, deve essere posizionato possibilmente a trenta centimetri dal tuo viso e inquadrarti a mezzo busto e centrato.

Piazza la telecamera a livello degli occhi e mai oltre l’attaccatura dei capelli e durante il video ricordati di guardare nella webcam per dare l’impressione di guardare l’interlocutore nel volto, per dimostrarti attento e convincente.

L’abito fa il monaco

Per quanto possa sembrarti strano, il modo in cui sei vestito, influenza il modo in cui ti senti, se decidi di partecipare a una riunione di lavoro importante, con le ciabatte e i bermuda, tanto non ti vedono, potrebbe succedere che tu possa risultare poca professionale nel tuo modo di svolgere la riunione.

Quindi vestiti come se dovessi andare in ufficio, o meglio che se tu dovessi fare un pomeriggio davanti a Netflix.

Truccati, pettinati e sbarbati, questi gesti sono “ancore” che ci fanno entrare in “modalità lavorativa” e ci aiutano a concentrarci e a prepararci alla “performance”.

Ultime regole per videoconferenze efficaci

Ancora un paio di raccomandazioni:

  • non magiare con la webcam accesa;
  • spegni il microfono quando non stai parlando;
  • intervieni solo se hai qualcosa da dire di importante;
  • non sovrapporti al discorso degli altri;
  • fai sempre dei test, anche quando modifichi un solo elemento del tuo set-up.

Gualtiero Tronconi

Smart work o tutti in ufficio?

Durante il periodo del Covid 19 i lavoratori americani che lavorano da casa sono passati dal 31% al 65%, molti di questi, stando alle previsioni più diffuse, non torneranno a lavorare in ufficio. Proprio in questo passaggio è individuabile il più grande quesito dei leader e dei manager in questo periodo: smart work o torniamo tutti in ufficio?

Questa situazione pone nuove sfide e quesiti importanti per tutte le persone deputate a guidare questi smart worker.

Abbiamo trovato un’interessante ricerca della società di consulenza Gallup che ha analizzato i criteri attraverso i quali leader e manager possano decidere quale strada intraprendere tra smart e office work.

Analizza la tua organizzazione

Il primo consiglio è quello di evitare che il driver delle tue decisione come leader sia esclusivamente il mantenimento dei costi.

Le considerazioni finanziare, per quanto importanti, non possono essere l’unico fattore che determini le strategie di un’organizzazione, la cultura aziendale deve assolutamente essere presa in considerazione.

Le domande da farsi rispetto all’adozione dello smart working in relazione alla cultura aziendale sono:

  • Coerenza: la nostra decisione è allineata alla nostra cultura?
  • Chiarezza: c’è un piano nascosto o poco chiaro dietro la decisione?
  • Autenticità: La nostra logica è credibile?

Per completare questo paragrafo, è necessario anche tenere presente l’effetto che il lavoro da remoto possa avere sulla customer experience essendo anche i clienti parte integrante del “sistema azienda”.

Analizza il ruolo

Non tutti i ruoli all’interno di un’organizzazione si prestano a poter essere eseguiti da remoto quindi, prima di prendere una decisione a riguardo, si possono tenere in considerazione tre criteri:

  1. I dipendenti possono svolgere le proprie funzioni al di fuori del luogo di lavoro?
  2. La maggior parte delle attività e dei processi del ruolo sono ben definiti?
  3. Il ruolo richiede un lavoro altamente interdipendente da altri ruoli?

Possiamo anche creare uno schema di riferimenti partendo da questi criteri:

Necessità di attenzioneOttimale
I doveri devono essere eseguiti in un luogo di lavoro in loco.Alcuni compiti potrebbero essere in grado di essere eseguiti in un luogo fuori sede.È possibile eseguire la maggior parte o tutti i compiti in un luogo fuori sede.
Le attività e i processi del lavoro non sono ben definiti.Le attività e i processi di lavoro hanno una certa definizione.Le attività e i processi lavorativi sono ben definiti.
Il ruolo richiede un lavoro altamente interdipendente.Il ruolo richiede un lavoro interdipendente.Il ruolo non richiede molto lavoro interdipendente.

Prendiamo per esempio un analista: il suo lavoro può non avere compiti o scadenze chiaramente definiti e il suo ruolo richiedere attività fortemente interdipendenti dal lavoro e dagli input di altri partner.

Far lavorare da remoto il nostro analista costringerà il suo leader a una maggiore attenzione rispetto alle attività di feedback, coaching e verifica delle condizioni del lavoratore.

Analizza la squadra

Se è vero, e lo è, che questo periodo di difficoltà ha creato una forte coesione tra le persone, che le videochat hanno portato i colleghi nelle nostre case, che il sentimento condiviso di paura verso il futuro ci ha portato a fare gruppo più che mai…

È anche vero che il lavoro da remoto può ledere la produttività di un team in maniera considerevole, in condizioni di normalità e non di emergenza globale.

Per valutare i team che meglio potrebbero sostenere questa sfida ci sono quattro parametri da considerare:

  1. Interdipendenza dei membri del team.
  2. Dinamica dei contributi dei membri del team: quali ruoli possono causare colli di bottiglia?
  3. Coinvolgimento del team: quali strumenti hai, come leader, per sostenere e motivare un gruppo da remoto?
  4. Fiducia.

Sebbene possa sembrare paradossale, è stato dimostrato che i team ben gestisti, con una leadership forte ed efficace, capace di coinvolgere e dare feedback costante, hanno un tasso di coinvolgimento più alto di quelli che condividono lo spazio di lavoro fisico.

Analizza la persona

Sono quattro le considerazioni da fare su ciascun membro del tuo team prima di decidere se è meglio che lavori da remoto o in loco:

  1. Prontezza e comfort: questa persona è a proprio agio con i protocolli e le precauzioni che l’organizzazione sta implementando? Quali sono i problemi di salute e sicurezza dell’individuo – per se stessi e i loro familiari?
  2. Circostanze: quali sono le esigenze personali di questa persona riguardo all’assistenza all’infanzia, all’assistenza agli anziani o alle responsabilità per la cura dei familiari malati? Che tipo di trasporto è richiesto alla persona per tornare a lavorare in ufficio? La persona ha uno spazio ben definito a casa adatto per lavori da remoto a lungo termine?
  3. Prestazioni: come si è comportato questo individuo prima e dopo il passaggio al lavoro a casa? Tracciare e supportare le performance basse può essere più difficile a distanza.
  4. Punti di forza: anche se un ruolo si allinea bene con il lavoro remoto, è importante considerare che le persone hanno talenti diversi e, quindi, modi diversi per ottenere lo stesso risultato. Alcune persone lavorano in remoto con un alto grado di successo nonostante interventi minimi. Altri possono avere lo stesso ruolo, ma si comportano meglio con le interazioni e la struttura del lavoro in loco.

Conclusione

Qual è quindi la risposta alla domanda: smart work o torniamo tutti in ufficio?

Come nella maggior parte dei casi non esiste una risposta valida per tutti, tutto sta nella capacità di guida del leader e del management e nella coerenza delle loro scelte nei confronti del “sistema azienda” che rappresentano, del team che guidano e delle persone che li seguono.

Gualtiero Tronconi

I vantaggi della felicità nel business

Felicità e Business

È sempre un po’ imbarazzante parlare di felicità, sembra quasi scabroso.

Se poi se ne parla in termini di business si rischia di essere presi per dei fricchettoni che non capiscono nulla dello “spietato mondo degli affari”.

Parlare di felicità e business è una sfida… e a noi piacciono le sfide quindi iniziamo.

Un po’ di numeri

Secondo una ricerca realizzata da Gallup nel 2017 le aziende che mettono la felicità dei loro dipendenti nella lista delle priorità sono più produttive e redditizie e capaci di attirare i talenti migliori.

I dati raccolti da Gallup, la società che misura il livello di felicità percepito nel mondo, parlano chiaro: le aziende che mettono al centro delle loro politiche il benessere dei dipendenti hanno tutta una serie di benefici:

+ 21% di produttività
– 37% di assenteismo
– 65% di turn over
+ 21% nella soddisfazione dei clienti

Qualche case history

Anche Lidia Nicolau (di cui si parla anche in questo articolo su Il Sole 24 Ore), Chief Happiness Officer Personas y Cultura, ha parlato dei benifici della felicità rispetto ai risultati della sua azienda: Habitissimo, piattaforma online (leader in Spagna, Italia, Brasile e America Latina) che mette in contatto domanda e offerta in tema di edilizia, ristrutturazioni e servizi per la casa.

«È molto facile copiare una pagina web o proporre un modello di business simile, ma la differenza vera è dettata dal livello di innovazione e creatività del team e dall’impegno che ci mette.

La gestione della felicità va proprio in questa direzione.

Oltre al fatto che promuove l’azienda come un bel posto per andare a lavorare, facilita l’identificazione e l’assunzione dei migliori talenti in circolazione.

C’è poi una minore rotazione. In posizioni dove il turnover è elevato, come ad esempio tra gli sviluppatori, il nostro indice è pari a zero.

Senza dimenticare i livelli di assenteismo che si riducono al minimo».

Risulta a questo punto chiaro che il maggiore vantaggio competitivo in questo mondo sono le persone felici, impegnate e soddisfatte in un’azienda.

Altre ricerche, oltre quella di Gallup, dimostrano:

  • un incremento delle vendite del 37%
  • un incremento della produttività del 30%
  • un aumento della soddisfazione dei clienti del 10%
  • un incremento delle idee innovative del 400%
  • la creatività aumenta del 300%
  • il 54% di retention dei dipendenti
  • una riduzione dell’assenteismo del 66%.

I dati sono più numerosi della lista appena elencata e dimostrano solo incrementi positivi che portano un beneficio economico all’azienda.

La felicità e HPO

Il concetto stesso di HPO (Organizzazione Altamente Performante) prevede, implicitamente, l’attivazione di una “happiness policy”.

Se voglio far sentire le persone coinvolte, se voglio che facciano propria la vision e la mission dell’azienda, non posso esimermi dallo strutturare la vita lavorativa dei miei collaboratori e dipendenti tenendo presente il fattore “felicità”.

Le abitudini della felicità

Brian Colbert, trainer, formatore e coach di aziende come PepsiGoogleSalesforceO2 e CRH porta ormai in giro per il mondo il suo corso e il suo libro “Le abitudini della felicità” da circa 10 anni con enorme successo.

Molti manager, leader aziendali e imprenditori frequentano il corso, ovunque, in Italia no!!!

Cosa ci tiene lontani dalla parola “felicità”?

Cosa ci spaventa? Quale sinistro presagio o sentore di fregatura ci si palesa quando un formatore ci parla di “felicità”?

È una domanda che ci siamo posti più volte e che abbiamo posto anche a Brian, e in realtà nessuno di noi ha trovato una risposta definitiva.

Forse la risposta è proprio nell’introduzione al libro di Brian “Le Abitudini della Felicità”:

“Sei felice?” non è una domanda a cui è facile rispondere.

La maggior parte delle persone sembra concentrarsi esclusivamente sui problemi, i disagi, i disservizi, le crisi, i conflitti.

Non si domanda se è felice, né come potrebbe diventarlo.

La felicità è “NC”: Non Classificata. Rinviata a data da destinarsi. Archiviata come “non importante” o “non urgente”.

La felicità manca: dagli ordini del giorno, dalle nostre conversazioni, dai programmi scolastici, dalle assemblee di condominio.

È la grande assente della nostra vita quotidiana.

Gualtiero Tronconi

La musica ti cambia il cervello

Ho sempre detto, pensato e creduto che un mondo con più musicisti sarebbe un mondo migliore e che la musica sia uno strumento per elevarci, in grado di cambiare la nostra mente, forse la nostra anima, ora so per certo che la musica può cambiare il nostro cervello.

La ricerca

Nel 2017, l’Università di Edimburgo ha reso pubblico, sulla rivista Brain and Cognition volume 116, uno studio in cui viene dimostrato come la musica possa modificare il nostro cervello.

Mi spiego meglio, i ricercatori hanno preso un campione di 40 persone, tutte destrorse, e gli hanno assegnato il compito di imparare, in quattro settimane, una sequenza di movimenti da eseguire con la mano sinistra. A 20 dei volontari è stata fatta ascoltare della musica mentre si esercitavano, agli altri no.

Al termine del periodo di training, tutte e 40 le persone avevano imparato a eseguire il compito assegnato ma, monitorando la loro attività celebrare con la MRI (tomografia a risonanza magnetica), gli studiosi hanno fatto la scoperta… Alcune connessioni neurali, in particolare nel fascicolo arcuato (deputato al collegamento di due centri del linguaggio), si erano maggiormente sviluppate nel campione di volontari che aveva ascoltato la musica.

I risultati

La musica avrebbe portato un significativo aumento della connettività strutturale in un tratto della materia bianca del cervello. Il gruppo “non musicale” non avrebbe mostrato invece alcun cambiamento.

Questo, a detta dei ricercatori, è dato dal fatto che la musica incoraggia naturalmente le persone a muoversi e questo studio dimostra, per la prima volta, scientificamente che il suo inserimento nell’apprendimento di un nuovo compito motorio può portare a dei veri e propri cambiamenti fisici del cervello.

Le fonti

Per i curiosi e coloro che voglio approfondire, riporto qui di seguito il link per andarsi a leggere l’intero articolo: “Diffusion tensor MRI tractography reveals increased fractional anisotropy (FA) in arcuate fasciculus following music-cued motor training“.

Gualtiero Tronconi

La storia del barometro e il pensiero laterale

Il professor Alexander Calandra ha riportato questo ottimo esempio di pensiero laterale in un articolo della rivista Current Science, Teacher’s Edition del 1964.

«Tempo fa ricevetti una chiamata da un collega. Aveva intenzione di dare zero a uno studente per una sua risposta ad un problema di fisica, mentre lo studente pretendeva il massimo dei voti per aver dato la risposta esatta.Il professore e lo studente concordarono di rivolgersi a me come arbitro imparziale.

La domanda assegnata all’esame era: “Mostrare in che modo è possibile determinare l’altezza di un grattacielo con l’aiuto di un barometro.”
Lo studente aveva risposto: “Porta il barometro in cima all’edificio, legalo ad una lunga corda, calalo fino alla strada, fai un segno, tiralo su e misura la lunghezza della corda. La lunghezza della corda è uguale all’altezza del grattacielo.”
Lo studente aveva risolto il problema completamente e correttamente. Ma assegnargli il massimo dei voti avrebbe potuto certificargli competenze non effettivamente confermate dalla sua risposta.

Io suggerii di dare allo studente un’altra possibilità. Gli concessi sei minuti per rispondere alla stessa domanda con l’avvertenza di dimostrare le sue conoscenze di fisica.
Dopo cinque minuti non aveva scritto nulla. Gli chiesi se voleva ritirarsi ma egli disse che aveva molte risposte a questo problema; stava scegliendo quella migliore. Mi scusai per averlo interrotto e gli dissi di procedere.
Nel minuto successivo scrisse la seguente risposta: “Porta il barometro in cima all’edificio e lascialo cadere al suolo. Misura il tempo di caduta con un cronometro. Quindi, usando la formula h=0.5*a*t^2 calcola l’altezza dell’edificio”. A questo punto chiesi al mio collega se lo studente poteva ritirarsi. Lo concesse e gli diede il massimo voto.

Lasciando l’ufficio del mio collega chiesi allo studente quali erano le altre risposte che conosceva.
Egli disse: “Ci sono molti modi per misurare l’altezza di un grattacielo con l’aiuto di un barometro.
Per esempio puoi misurare la lunghezza del barometro, la sua ombra e l’ombra del grattacielo in un giorno di sole e quindi, con una semplice proporzione, calcolare l’altezza dell’edificio.” Bene, dissi io, e le altre risposte? “Sì,” rispose “c’è un metodo molto elementare: partendo dal piano terreno sali le scale e traccia dei segni sui muri utilizzando il barometro come unità di misura di lunghezza. Alla fine conta i segni e avrai l’altezza dell’edificio in unità-barometro.”
 e io confermai che questo era un metodo molto diretto.”

“Naturalmente. Se vuoi un metodo più sofisticato, puoi legare il barometro ad un filo ed usarlo come pendolo per misurare il valore di g (gravità) al livello della strada e in cima all’edificio. 
Conoscendo la differenza di gravità è possibile calcolare l’altezza dell’edificio.
Similmente puoi andare in cima all’edificio, legare il barometro ad una lunga corda, calarlo fino al livello della strada e farlo oscillare come un pendolo. Misurando il periodo, si può calcolare la lunghezza della corda, cioè l’altezza dell’edificio.
Infine, ci sono molti altri metodi per risolvere il problema. Forse il migliore è quello di prendere il barometro e bussare alla porta del direttore. Quando apre gli dici così: “Signor direttore, questo è un bellissimo barometro. Se mi dice l’altezza dell’edificio glielo regalo!”.»

A questo punto chiesi allo studente se veramente NON conoscesse la risposta convenzionale a questa domanda. Egli ammise che la conosceva ma che non ne poteva più di una scuola e di docenti che tentavano di insegnargli cosa pensare invece che insegnargli semplicemente le materie».

Lo studente era Niels Bohr, fisico danese, premio Nobel per la Fisica nel 1922.

Gualtiero Tronconi

Gandhi, la grande anima

Oggi mi piacerebbe raccontarti una storia, la vita di un uomo, chiamato anche “Grande Anima” che Albert Einstein definì così:

«Una guida del suo popolo, privo di aiuto da parte di qualsiasi altra autorità esterna; un uomo politico i cui successi non si basano sull’artificio o sulla padronanza di formule tecniche, ma semplicemente sull’autorità morale che emanava dalla sua personalità; un combattente vittorioso che ha sempre disdegnato l’uso della forza; un uomo saggio e umile, armato di decisione e di inflessibile coerenza, che ha dedicato ogni energia alla rinascita del suo popolo e al miglioramento delle sue fortune; un uomo che ha affrontato la brutalità dell’Europa con la semplice dignità di un essere umano, dimostrandosi superiore in ogni occasione. È possibile che le generazioni future stenteranno a credere che un tale uomo sia mai vissuto in carne e ossa su questa terra».

La gioventù

Un uomo nato in India e poi trasferitosi, per studiare legge, in Inghilterra. 
Un uomo che, tornato nel suo paese natale, non riesce a fare l’avvocato per l’imbarazzo nel parlare in pubblico.
Un uomo che un giorno entrò in contatto con il dolore, la persecuzione, l’emarginazione e il pregiudizio razziale e decise di non poter accettare tutto questo.

Così, in Sudafrica dove si trova in quel momento, quest’uomo inizia a opporsi a ciò che trova ingiusto, non con la violenza, ma con la determinazione di chi sa di essere nel giusto.

«Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.»

Satayagraha

Comincia a rifiutare, personalmente, i soprusi della segregazione e scrive lettere di protesta alla stampa. Infine riunisce gli emarginati a Pretoria e pronuncia il suo primo discorso pubblico.

Questo piccolo uomo inventa una parola per definire il suo concetto di lotta: “satyagraha” che significa “insistenza per la verità”, più comunemente tradotta come “resistenza passiva”.

«Non importa quanto insignificante possa essere la cosa che dovete fare, fatela meglio che potete, prestatele tutta l’attenzione che prestereste alla cosa che considerate più importante. Infatti sarete giudicati da queste piccole cose.»

Di nuovo in India

Tornato in India l’uomo decide, è il 1915, di attraversare tutto il paese per conoscerne le necessità e ricongiungersi al suo spirito.
La sua parola inizia a farsi strada tra la gente ed egli inizia a organizzare altri atti di disobbedienza civile pacifica. Scioperi dei braccianti sotto pagati, organizzazioni di volontari per pulire villaggi e costruire scuole e ospedali e altro ancora.

«Il più grande, per rimanere grande, deve scegliere di essere il più umile.»

Ormai anche la politica ad alto livello non può restare indifferente al messaggio e all’agire di questo uomo che ormai il popolo segue e ama.Il suo movimento diventa partito e inizia ad agire politicamente, sempre secondo il principio del satyagraha.

«Che nessuno dica di essere mio seguace. È sufficiente che io sia seguace di me stesso.»

La sua eredità

Questo piccolo grande uomo riesce infine a riunire il suo popolo, a portarlo all’indipendenza, a diventare fonte di ispirazione per altri grandi uomini, come Martin Luther KingNelson Mandela e Aung San Suu Kyi e diventare il simbolo e la personificazione di un’ideale: la non violenza.
Il suo nome era Mohandas Karamchand Gandhi, detto il Mahatma, “La Grande Anima”

«La non-violenza è il primo articolo della mia fede. È anche l’ultimo articolo del mio credo.»

Gualtiero Tronconi

Il giusto peso dell’acqua

Il professore della Facoltà di Psicologia fa il suo ingresso in aula. Il suo corso è uno dei più frequentati. Prima che inizi la lezione c’è un gran vociare tra gli studenti che, riuniti a piccoli gruppi, parlano tra loro.Il professore tiene in mano un bicchiere d’acqua.

Nessuno nota questo dettaglio finché il professore, sempre con il bicchiere d’acqua in mano, inizia a girovagare tra i banchi dell’aula. Il professore cammina, incrocia gli sguardi dei ragazzi, ma rimane in silenzio.Gli studenti si scambiano sguardi divertiti, ma non sono sorpresi. Qualcuno pensa che il gesto serva a introdurre una lezione sull’ottimismo e sul classico esempio del bicchiere mezzo pieno, o mezzo vuoto.

Il docente, invece, si ferma, e domanda ai suoi studenti:

  • «Secondo voi quanto pesa questo bicchiere d’acqua?».

Gli studenti sembrano un po’ spiazzati dalla domanda, ma in molti rispondono ipotizzando un peso compreso tra i 200 e i 300 grammi.

«Il peso assoluto del bicchiere d’acqua è irrilevante», risponde il professore, «Ciò che conta davvero, è per quanto tempo lo tenete sollevato!»

Felice di aver catturato l’attenzione dei suoi studenti, il professore continua:

«Sollevatelo per un minuto, e non avrete problemi! Sollevatelo per un’ora, e vi ritroverete un braccio dolorante… Sollevatelo per un’intera giornata, e vi ritroverete un braccio paralizzato!»

Gli studenti continuano ad ascoltare attentamente il loro professore di psicologia:

«In ognuno di questi tre casi il peso del bicchiere non è cambiato! Eppure, più il tempo passa, più il bicchiere sembra diventare pesante… Lo stress e le preoccupazioni, sono come questo bicchiere d’acqua. Piccole o grandi che siano, ciò che conta è quanto tempo dedichiamo loro. Se dedichiamo ad esse il tempo minimo indispensabile, la nostra mente non ne risente. Se iniziamo a pensarci più volte durante la giornata, la nostra mente inizia ad essere stanca e nervosa. Se pensiamo continuamente alle nostre preoccupazioni, la nostra mente si paralizza!»

L’insegnante capisce, di avere la completa attenzione dei suoi studenti, e decide di concludere il suo ragionamento:

«Per ritrovare la serenità, dovete imparare a lasciare andare lo stress e le preoccupazioni. Dovete imparare a dedicare loro il minor tempo possibile, focalizzando la vostra attenzione su ciò che volete, e non su ciò che non volete! Dovete imparare a mettere giù il bicchiere d’acqua!»

Gualtiero Tronconi

Ciò che fai, ciò che sei

Io… io sono un judoka, sono un chitarrista, sono un genitore, sono un compagno, sono un figlio, sono un amico, sono un coach, sono un insegnante, sono un mentore, sono un poeta…

Sono una sacco di cose e nessuna di esse mi definisce del tutto.

Neanche tutte queste messe assieme riescono a definirmi del tutto.

Io… io faccio il venditore, faccio il padre, faccio il grafico, faccio il marketing manager, faccio il trainer, faccio il consulente, faccio il critico musicale, faccio la guida, faccio il giornalista…

E tutto questo, che faccio talmente tanto da sembrare ciò che sono, mi definisce ancora meno.

Detto tutto questo mi viene difficile dire cosa io sia e questo, nella mia esperienza di coach, vale per me come gli altri.

Sento tutti definirsi per il comportamento che hanno, per ciò che fanno:

  • sono un amministratore delegato
  • sono una persona timida
  • sono un padre di famiglia
  • sono un estroverso
  • sono una persona sorridente

Ma tutto questo non parla davvero di noi, racconta solo ciò che facciamo.

Per capire davvero chi siamo, per entrare nel profondo dei nostri valori, dei nostri desideri, della nostra identità ed essenza bisognerebbe andare un po’ più a fondo.

Tutto questo è quasi impossibile da solo, è difficile non cadere nell’inganno del “raccontarsela”, dell’indorare la pillola o dell’autocommiserazione.

Ci vuole qualcuno che ci aiuti a spacchettare le informazioni, qualcuno che faccia le domande scomode, qualcuno che ci spinga oltre e ci guidi verso la “verità”.

Questo è il ruolo di un coach, almeno uno dei suoi ruoli, guidarti da ciò che credi di essere, da ciò che fai, a ciò che sei o potresti essere.

Insegnare

Ho iniziato a insegnare quando ancora ero molto giovane, avevo la presunzione di poter aiutare gli altri a imparare come suonare la chitarra, cosa che sapevo fare così così anche io…

Ho continuato a dare lezioni per anni, poi per un lungo periodo ho smesso, senza un motivo reale, solo che avevo altre cose più interessanti da fare, altre priorità.

Nel frattempo il palco era diventato una parte importante della mia vita, stare in piedi a suonare davanti a decine, a volte centinaia di persone, era una droga a cui non riuscivo a rinunciare… una vera ossessione, una dipendenza.

Ora sarò estremamente schietto e cercherò di essere il più onesto possibile.

L’energia che ritorna dal pubblico, l’ammirazione, l’enorme massaggio all’ego, al limite del sessuale, sono una cosa difficile a cui rinunciare anche per chi, come me suonava nei locali di Milano e non a Wembley.

Posso dire con certezza che molte delle mie insicurezze giovanili siano state curate dagli applausi del pubblico. Posso anche dire che molte delle mie “conquiste” siano un dono del palco, senza la chitarra e le luci accese difficilmente alcune delle ragazze che sono state con me mi avrebbero anche solo cagato.

Una volta finito di suonare, e questa è un’altra storia che prima o poi racconterò, l’astinenza è stata tanta… mi mancavano gli occhi addosso, mi mancava essere al centro dell’attenzione, mi mancava l’ammirazione e gli applausi.

Fortunatamente mi proposero di tenere dei corsi di chitarra e, finalmente, capii perché mi piaceva tanto insegnare: cazzo!!! È quasi come stare su un palco!!!

Credetemi se vi dico, ormai sono anni che mi occupo di formazione e ho conosciuto davvero tanti trainer, speaker, oratori e intrattenitori di vario genere è tutti, in un modo o nell’altro, hanno avuto la mia stessa epifania e il mio stesso bisogno di ammirazione.

Ammetto che il brivido di vedere gli occhi dei corsisti che ti guardano come se tu potessi sapere tutto quello che loro ignorano è davvero piacevole, poi possiamo tentare di sublimare la goduria raccontando che ci piace arricchire la vita degli altri, che amiamo vedere le persone che crescono, che adoriamo essere un gradino nella scala evolutiva delle persone e via così…

La verità è che siamo tutti di fottuti egocentrici!!!

Ci piace essere lì, ci piacciono le luci addosso, gli occhi addosso… godiamo a fare i fighi che sanno quello che gli altri non conoscono…

Detto tutto questo mi sorge spontanea una domanda, che faccio a me stesso: ma alla fine allora dovrei smetterla, sto facendo qualcosa di male?

Qualche anno fa, nel mio corso di chitarra base, si è presentata una simpatica signora di oltre settanta anni. Era una nonna, con problemi di artrite, che sognava di imparare a suonare la chitarra per poter condividere la passione per la musica dei nipoti, uno batterista e l’altro bassista.

Dopo mesi di impegno, suo e mio, serate a trovare strategie per farle imparare gli accordi con dittaggiature modificate che la sua artrite le permettesse di eseguire, dopo ore a ripeterle come tenere il tempo…

Beh… il video della band nonna e nipoti è un ricordo che porterò nel cuore per sempre e uno dei più grandi motivi di orgoglio della mia vita…